Pubblichiamo il parere su DL 66/2014
Michele Ainis
Ordinario di Istituzioni di diritto pubblico nell’Università di Roma Tre
Parere pro veritate circa i profili di legittimità costituzionale del decreto legge 24 aprile 2014, n. 66 («Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale»), con riferimento agli interventi su Rai s.p.a.
(reso al Sindacato Nazionale Autonomo Telecomunicazioni Radiotelevisioni e Fondazioni Liriche – S.N.A.T.E.R)
Sommario: 1. I termini della questione. – 2. Sul rispetto delle competenze regionali in materia radiotelevisiva. – 3. Sulla cessione di quote di società partecipate da parte di Rai s.p.a. – 4. Sulla legittimità costituzionale della sottrazione a Rai s.p.a. di una quota del canone radiotelevisivo: a) l’indipendenza economica della Rai. – 5. b) L’intangibilità del canone. – 6. c) La violazione del principio di lealtà fiscale. – 7. L’irragionevolezza complessiva dell’art. 21 del decreto legge n. 66.
1. I termini della questione. – Il Sindacato Nazionale Autonomo Telecomunicazioni Radiotelevisioni e Fondazioni Liriche (S.N.A.T.E.R) chiede un parere pro veritate circa i profili di legittimità costituzionale del decreto legge 24 aprile 2014, n. 66 («Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale»), con riferimento agli interventi su Rai s.p.a. Più in particolare, il dubbio di costituzionalità investe: a) la sottrazione a Rai s.p.a. di una quota del canone radiotelevisivo per l’anno 2014, nella misura di euro 150 milioni; b) la cancellazione dell’obbligo, da parte della Rai, di presidiare l’intero territorio nazionale attraverso sedi dislocate in ciascuna Regione; c) la possibilità concessa alla Rai di spogliarsi, in tutto o in parte, delle società partecipate (e fra queste la consociata Rai Way), attraverso procedure stabilite con decreto del presidente del Consiglio dei ministri.
Vengono perciò in rilievo gli artt. 20 e 21 del decreto legge n. 66 del 2014: il primo, nell’ambito della spending review decisa dal governo Renzi, impone una riduzione dei costi operativi che per Rai s.p.a. ammonta a 50 milioni di euro; il secondo prefigura le modalità di tale riduzione, oltre a sottrarre ulteriori 150 milioni di euro che lo Stato avrebbe dovuto corrispondere alla Rai per il gettito del canone radiotelevisivo. Un intervento senza precedenti nella storia legislativa della Repubblica italiana, per di più in corso di esercizio finanziario da parte della Rai; e tuttavia imbastito in termini sommari, con un che di sbrigativo, con una sostanziale noncuranza rispetto ai valori costituzionali in gioco. Al di là del merito giuridico – di cui si tratterà nelle pagine seguenti – ne offrono prova taluni indici esteriori.
In primo luogo, il linguaggio oscuro e burocratico usato dall’art. 21, che già di per sé infrange il principio di chiarezza delle leggi, caposaldo dello Stato di diritto (M. Ainis, La legge oscura, Roma-Bari 2010, pagg. 117 ss.): così, per esempio, nel comma 3 dell’art. 21 («ai fini dell’efficientamento»). In secondo luogo, riferimenti normativi erronei, che mettono a repentaglio la certezza del diritto: è il caso del comma 1 dell’art. 21, dove viene modificata una disposizione inesistente. Più precisamente, si tratta del comma 2, lettera p), dell’art. 17 della legge 3 maggio 2004, n. 112, nonché del successivo comma 3; ma la legge in questione è rifluita nel Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici (d.lgs. 31 luglio 2005, n. 177, a sua volta modificato dal d.lgs. 15 marzo 2010, n. 44), che ha perciò operato una novazione della fonte, sostituendosi alla fonte preesistente (M. Mautino e R. Pagano, Testi unici. La teoria e la prassi, Milano 2000, pagg. 181 ss.). In terzo luogo, con riferimento alla possibilità di chiudere le sedi regionali della Rai, manca l’abrogazione espressa dell’art. 46 del Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici, dove si prevede che le Regioni stipulino contratti di servizio con l’emittente pubblica; se ne dovrebbe presumere pertanto l’abrogazione implicita, che tuttavia contrasta con la tecnica dell’abrogazione esplicita adottata in altri luoghi del medesimo art. 21 del decreto legge n. 66 (in particolare al comma 1, lettera b). In quarto luogo e infine, l’art. 21 prospetta due eventualità per contenere i costi della Rai (l’accorpamento delle sedi regionali e la dismissione di società partecipate), senza chiarire se le due ipotesi siano alternative o cumulative.
2. Sul rispetto delle competenze regionali in materia radiotelevisiva. – Fra i tre profili sottoposti al vaglio di questo parere, il punto decisivo è il primo. Ciò nonostante, anche gli altri due presentano aspetti problematici. Quanto alla violazione delle attribuzioni regionali, si potrebbe qui invocare il nuovo art. 117, comma 3, della Costituzione, che assegna alla potestà legislativa regionale concorrente la materia dell’«ordinamento della comunicazione». In tale materia ricade indubbiamente la disciplina della radiotelevisione (v. già, subito dopo la riforma del Titolo V, l’audizione in Senato del presidente AgCom, Enzo Cheli, resa il 27 novembre 2001; e in dottrina, fra gli altri, E. Carloni, L’ordinamento della comunicazione dopo la (ed alla luce della) riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, in «Diritto pubblico», 2002, pagg. 1015 ss.; A. Pace, L’ordinamento della comunicazione, in «Diritto pubblico», 2004, pagg. 946 ss.; A. Chimenti, L’ordinamento radiotelevisivo italiano, Torino 2007, pagg. 269 ss.).
In quali competenze si traduce l’intervento regionale? In astratto, potrebbe rientrarvi anche una sorta di “potere d’interlocuzione” nei confronti del servizio pubblico radiotelevisivo circa la sua articolazione nei territori regionali, se non un diritto vero e proprio a ospitare sedi decentrate della Rai presso ciascuna Regione. D’altronde, non mancano indizi normativi in questa direzione. Così, in primo luogo, la «legge Gasparri» (n. 112 del 2004), poi confluita nel testo unico che regola il settore radiotelevisivo. Dove per l’appunto s’incontra un principio generale: alla Rai spetta «la diffusione di tutte le trasmissioni televisive e radiofoniche di pubblico servizio della società concessionaria con copertura integrale del territorio nazionale» (art. 45, comma 2, lettera a). E dove le leggi regionali vengono abilitate a «definire gli specifici compiti di pubblico servizio che la società concessionaria del servizio pubblico generale di radiodiffusione è tenuta ad adempiere nell’orario e nella rete di programmazione destinati alla diffusione di contenuti in ambito regionale o, per le province autonome di Trento e di Bolzano, in ambito provinciale», mentre «è, comunque, garantito un adeguato servizio di informazione in ambito regionale o provinciale» (art. 46 , comma 1); sicché «le Regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano sono legittimate a stipulare, previa intesa con il Ministero, specifici contratti di servizio con la società concessionaria del servizio pubblico generale di radiodiffusione» (art. 46, comma 2).
In secondo luogo, verso un’interpretazione estensiva delle competenze regionali in questo campo militano altresì gli statuti regionali, che costituiscono parametro di validità delle leggi regionali (L. Paladin, Le fonti del diritto italiano, Bologna 1996, pag. 302). E così – per mostrare solo qualche esempio – lo statuto della Calabria (art. 2, comma 2) attribuisce alla Regione «la disciplina del sistema locale delle comunicazioni»; quello dell’Emilia Romagna (art. 14, comma 2) le assegna il compito d’informare i cittadini attraverso «l’impiego degli strumenti di informazione e di comunicazione ed in particolare quelli radio-televisivi»; analoghe espressioni si rinvengono negli statuti del Lazio (art. 6, comma 4), del Molise (art. 9, comma 1), e via elencando.
Sta di fatto, però, che la Corte costituzionale ha derubricato le dichiarazioni statutarie programmatiche a una mera funzione «culturale», di carattere «non prescrittivo e non vincolante» (sentenza n. 372 del 2004). Sta di fatto, inoltre, che la stessa legge Gasparri (e quindi, adesso, il testo unico), passando dalle enunciazioni di principio alle regole concrete, interpreta al ribasso le competenze regionali in materia radiotelevisiva, esaurendole nello svolgimento di semplici funzioni amministrative, quali il rilascio di autorizzazioni e concessioni (A. Pace, sub art. 21, in Commentario della Costituzione, diretto da G. Branca e continuato da A. Pizzorusso, Bologna-Roma 2006, pag. 655). Sta di fatto, infine, che il medesimo orientamento percorre la giurisprudenza costituzionale, dove suona eloquente la sentenza n. 255 del 2010: in quella fattispecie è stata annullata, infatti, una legge regionale del Piemonte che contemplava «intese» fra la Regione e il Ministero delle Comunicazioni.
Questo triplice rilievo, insieme all’autonomia organizzativa che deve riconoscersi alla Rai come proiezione della sua indipendenza dal governo nazionale o dai governi regionali, impedisce di ravvisare una menomazione delle competenze costituzionalmente devolute alle Regioni nell’eventualità che la Rai decida la chiusura (o l’accorpamento) di alcune sedi regionali. D’altra parte, il fatto che il decreto legge n. 66 del 2014 non ponga un obbligo specifico in tal senso, prospettando viceversa una mera facoltà, impedisce di cogliervi una lesione rispetto all’indipendenza della società concessionaria del servizio pubblico. Anche se – va tuttavia osservato – l’art. 47, comma 3, ultimo inciso, del testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici afferma che «la ripartizione del gettito del canone dovrà essere operata con riferimento anche all’articolazione territoriale delle reti nazionali per assicurarne l’autonomia economica». Da qui un elemento di obbligatorietà rispetto al decentramento della Rai, e dunque un elemento di confusione e di contraddizione del quadro normativo complessivo, dopo l’intervento operato dal decreto legge n. 66.
3. Sulla cessione di quote di società partecipate da parte di Rai s.p.a. – Quesito ulteriore su cui occorre pronunciarsi in questa sede è la legittimità costituzionale dell’art. 21, comma 3, del decreto legge n. 66, a norma del quale Rai s.p.a. «può cedere sul mercato, secondo modalità trasparenti e non discriminatorie, quote di società partecipate, garantendo la continuità del servizio erogato. In caso di cessione di partecipazioni strategiche che determini la perdita del controllo, le modalità di alienazione sono individuate con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri adottato su proposta del Ministro dell’Economia e delle Finanze d’intesa con il Ministro dello Sviluppo economico». Si tratta perciò di valutare l’ammissibilità di un intervento esterno nella gestione della società concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo: sia nel merito (quanto all’imposizione per legge del riassetto industriale della Rai), sia nel metodo (quanto ai poteri consegnati al governo in tale fattispecie).
Di fatto, la Rai controlla varie aziende connesse all’attività di broadcasting: Rai Pubblicità, per la raccolta pubblicitaria; Rai Cinema, per l’acquisizione e la commercializzazione di diritti su opere audiovisive e multimediali; Rai World, per la diffusione internazionale dei programmi; Rai Net, per lo sviluppo dei siti web; Rai Way, per la diffusione del segnale. A oggi, l’ipotesi più accreditata è che sia proprio quest’ultima società a subire le conseguenze del decreto legge n. 66: difatti il Consiglio di amministrazione della Rai, subito dopo l’entrata in vigore del decreto, ha affidato al dg Luigi Gubitosi un “mandato esplorativo” per avviare le procedure propedeutiche alla vendita di una quota minoritaria di Rai Way. Contestualmente ha però avanzato dubbi sulla legittimità costituzionale di tale operazione – atteggiamento singolare, ma quantomai significativo. Già nel 2001, infatti, un’operazione analoga venne intrapresa e poi bloccata, anche per varie perplessità d’ordine giuridico; e in quella circostanza il Tar Lazio respinse le contestazioni sul blocco della cessione di Rai Way. Tale società, del resto, ricopre un ruolo strategico nella conformazione complessiva della Rai: 2.300 siti, 23 sedi, 600 dipendenti, un valore economico che Mediobanca stima attorno a 600 milioni. Ma soprattutto Rai Way costituisce un perno essenziale per garantire le prestazioni cui è tenuta la concessionaria del servizio pubblico.
A norma di legge (art. 45 del d.lgs. n. 177 del 2005), quest’ultimo viene demandato infatti a una società per azioni attraverso lo strumento della concessione, che a sua volta ha per oggetto sia la costruzione degli impianti, sia l’attività di diffusione dei programmi (P. Caretti, Diritto dell’informazione e della comunicazione, Bologna 2001, pagg. 113 ss.). Il primo adempimento, dunque, precede – logicamente e giuridicamente – il secondo: senza la disponibilità e il controllo delle strutture che permettono la diffusione del segnale, l’offerta televisiva pubblica rimarrebbe un’astrazione, un corpo senza gambe. Questo significa che l’ipotesi della cessione totale di Rai Way (prefigurata, sia pure come eventualità da sottoporre a una decisione concertata fra la Rai e il governo nazionale, dall’art. 21, comma 3, secondo alinea, del decreto legge n. 66) inocula un elemento d’irragionevolezza nel sistema normativo. Certo, in tale scenario Rai s.p.a. potrebbe pur sempre noleggiare (a quale prezzo?) le «torri» che diffondono il segnale. Ma in ogni caso l’azienda pubblica ne rimarrebbe impoverita – in termini strutturali, se non anche in termini economici – e ciò introduce un ulteriore profilo d’irragionevolezza nel decreto legge n. 66.
Sta di fatto che la concessione del servizio pubblico radiotelevisivo scade il 6 maggio 2016 (art. 49 del Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici). Il suo rinnovo presuppone il superamento di un test d’idoneità che nel tempo si è caricato d’una considerevole quantità di requisiti, sia a norma di legge (artt. 45 ss. del testo unico), sia alla stregua dei contratti nazionali di servizio, stipulati ogni triennio con il Ministero dello Sviluppo economico. Da qui il concreto rischio che Rai s.p.a. si presenti deficitaria alla scadenza della concessione, ove amputata del ramo oggi gestito da Rai Way. Ma impedire con un decreto legge le prestazioni che la legge medesima reclamerebbe da parte della Rai prefigura una «condizione impossibile», che nel campo dei rapporti privati rende nullo il negozio giuridico (art. 1354, comma 2, del codice civile). In secondo luogo, far diventare il governo dominus dei piani industriali della Rai configura un attentato all’indipendenza che le va riconosciuta proprio nei riguardi del governo, come si vedrà meglio nel prossimo paragrafo: il principio d’indipendenza comprende infatti pure l’indipendenza economica della Rai, e quest’ultima si trasferisce all’indipendenza delle aziende controllate. Anzi: la circostanza che tale attentato avvenga in forme surrettizie, che si consumi attraverso modalità oblique ed indirette, lo rende ancora più odioso. In terzo luogo e infine, vale pur sempre la regola aurea delle democrazie costituzionali: dove c’è potere, lì dev’esserci responsabilità, l’obbligo di rendere conto sull’esercizio del potere. Ma è vero anche l’inverso: dove c’è responsabilità (in questo caso la responsabilità della Rai circa il rispetto dei doveri contrattuali) lì dev’esserci potere (il potere di gestirsi nelle forme più adeguate per assolvere ai propri doveri).
4. Sulla legittimità costituzionale della sottrazione a Rai s.p.a. di una quota del canone radiotelevisivo: a) l’indipendenza economica della Rai. – Se le riserve avanzate nei due punti precedenti si traducono in altrettanti sospetti d’incostituzionalità, la prima questione posta all’esame di questo parere pro veritate configura viceversa una violazione macroscopica della Carta costituzionale: la sottrazione alla Rai di 150 milioni di euro dal gettito del canone radiotelevisivo è senz’altro illegittima, e per molteplici ragioni. Prima d’illustrarle nel dettaglio, è necessario muovere anzitutto dalla posizione costituzionale attribuita alla concessionaria del servizio pubblico.
All’esito di un lungo percorso normativo e giurisprudenziale, la conclusione non si presta a equivoci: la Costituzione italiana garantisce l’indipendenza della Rai, che si traduce in indipendenza rispetto al potere esecutivo, rispetto all’indirizzo politico perseguito dalla maggioranza di governo. Così le due storiche sentenze adottate dalla Corte costituzionale nel 1974 (nn. 225 e 226), precedute da una sentenza conforme della Corte di giustizia delle Comunità europee (30 aprile 1974) e immediatamente accompagnate dalla legge di riforma del sistema radiotelevisivo (n. 103 del 1975). Nella giurisprudenza costituzionale, in un primo tempo venne giustificato il monopolio pubblico (sentenza n. 59 del 1960); successivamente la Consulta ha riconosciuto il ruolo delle emittenti private, definendo tuttavia «servizio pubblico essenziale» la radiotelevisione di Stato. Così, per l’appunto, nella sentenza n. 225 del 1974, poi ribadita in molteplici occasioni; e le ragioni di tale qualifica risiedono nella insostituibile funzione del servizio pubblico, nella sua capacità di «assicurare una informazione completa, di adeguato livello professionale e rigorosamente imparziale nel riflettere il dibattito fra i diversi orientamenti politici che si confrontano nel Paese, nonché di curare la specifica funzione di promozione culturale ad essa affidata e l’apertura dei programmi alle più significative realtà culturali» (sentenza n. 284 del 2002, punto 4 della motivazione in diritto). Funzione, quest’ultima, che le emittenti private non possono mai garantire in pieno, dato che l’imprenditoria radiotelevisiva privata s’impronta piuttosto alla logica del profitto commerciale. Come peraltro attestano – sul piano del diritto europeo – due Comunicazioni della Commissione europea (adottate il 15 novembre 2001 e il 27 ottobre 2009), dove si sottolineano le «funzioni culturali, sociali e democratiche» del servizio pubblico radiotelevisivo.
In breve, le norme costituzionali che proteggono l’indipendenza della Rai sono, da un lato, l’art. 21 (diritto all’informazione); dall’altro lato, l’art. 9 (diritto alla cultura). Per assicurare un’informazione non partigiana, la Rai va perciò sottratta all’influenza del governo (P. Barile, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Bologna 1984, pag. 249), impedendo che quest’ultimo gestisca il servizio pubblico radiotelevisivo in modo «esclusivo o preponderante» (pronunzie costituzionali nn. 225 del 1974, 194 del 1987, 61 del 2008, 69 del 2009). E d’altronde, in un’epoca non più segnata dal monopolio pubblico e dalla scarsità delle frequenze, la legittimità del servizio pubblico radiotelevisivo riposa sulla sua autorevolezza, in termini di credibilità, di qualità, e per l’appunto di indipendenza progettuale (G.E. Vigevani, Pluralismo interno e indipendenza del servizio pubblico radiotelevisivo, in AA.VV., «Il diritto al pluralismo dell’informazione in Europa e in Italia», a cura di R. Pisillo Mazzeschi, A. Del Vecchio, M. Manetti e P. Pustorino, Roma 2012, pag. 23. Ma l’indipendenza della Rai costituisce un topos nella letteratura giuspubblicistica italiana: v. fra gli altri P. Costanzo, L’informazione, Roma-Bari 2004, pag. 161, nonché R. Zaccaria, Servizio pubblico radiotelevisivo, principio di eguaglianza e democrazia, in AA.VV., «Informazione Potere Libertà», a cura di M. Ainis, Torino 2005, pag. 79).
È utile osservare come il principio dell’indipendenza del servizio pubblico radiotelevisivo venga recepito anche nella giurisprudenza di vari tribunali costituzionali stranieri: così, per esempio, il Bundesverfassungsgericht tedesco, in una decisione del 1991 (BVerfGe 83, 238 (299), 5 febbraio 1991). Tuttavia è ancora più importante segnalare come tale principio sia “coperto” da molteplici atti normativi dell’Unione europea, che a loro volta impegnano la Repubblica italiana. Fra i più rilevanti, le due Risoluzioni del Parlamento europeo approvate il 25 settembre 2008 e il 25 novembre 2010, dove s’afferma la «necessità di mantenere un servizio pubblico di radiodiffusione indipendente»; la Raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa agli Stati membri del 15 febbraio 2012; e in precedenza la Raccomandazione n. 1641 adottata dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa il 27 gennaio 2004.
Ma è concepibile l’indipendenza del servizio pubblico nei confronti del governo ove il primo dipenda per le proprie risorse finanziarie dal secondo? Evidentemente no: l’indipendenza economica precede quella organizzativa e gestionale, ne costituisce il prius logico, l’antecedente concettuale, il presupposto. Dunque l’obbligo costituzionale di garantire l’indipendenza della Rai dal potere esecutivo si traduce nell’obbligo di garantirne l’autonomia, la regolarità e la certezza dei finanziamenti. Come d’altronde ha affermato a chiare lettere la Corte costituzionale, in un passaggio della sentenza n. 826 del 1988 (punto 19 della motivazione in diritto): «Compito specifico del servizio pubblico radiotelevisivo è di dar voce – attraverso un’informazione completa, obiettiva, imparziale ed equilibrata nelle sue diverse forme di espressione – a tutte, o al maggior numero possibile di opinioni, tendenze, correnti di pensiero politiche, sociali e culturali presenti nella società, onde agevolare la partecipazione dei cittadini allo sviluppo sociale e culturale del Paese, secondo i canoni di pluralismo interno. Ed ovviamente spetta al legislatore di provvedere a che il servizio pubblico disponga delle frequenze e delle fonti di finanziamento atte a consentirgli di assolvere i propri compiti».
Anche tale postulato trova un’eco nella giurisprudenza delle Corti d’oltralpe. Così, il Conseil Constitutionnel francese, in una decisione del 2009 sulla legge che ha stabilito la progressiva soppressione della pubblicità da France Télévisions, ha scritto che quel divieto «qui a pour effet de priver cette société nationale de programme d’une part significative de ses ressources, doit ȇtre regardée comme affectant la garantie de ses ressources, qui constitue un élément de son indépendance». E il diritto europeo, di nuovo, tutela senza mezzi termini il principio in questione. Ne è prova una Risoluzione del Parlamento europeo adottata il 19 settembre 1996, con la quale si invitavano gli Stati «a garantire finanziamenti coerenti, stabili e realistici a favore delle emittenti del servizio pubblico radiotelevisivo», assicurando «l’indipendenza dei canali del servizio pubblico radiotelevisivo da qualsiasi interferenza politica o economica». Ne è prova il Trattato di Amsterdam del 1997, che autorizza gli Stati membri a finanziare il servizio pubblico radiotelevisivo per garantirne la specifica «missione» (v. infatti, adesso, il Protocollo n. 32 nella versione consolidata del Trattato sull’Unione europea). Ne è prova la Raccomandazione n. 9 del 28 maggio 2003, adottata dal Consiglio d’Europa, che reclama risorse sufficienti per soddisfare i compiti delle radiotelevisioni pubbliche. Ne è prova la Risoluzione del Parlamento europeo del 25 novembre 2010 – poc’anzi richiamata – che raccomanda finanziamenti adeguati, proporzionati e costanti in favore delle emittenti pubbliche. E non è senza significato, infine, che tale principio venga recepito nel medesimo diritto positivo dello Stato italiano, dove il Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici (art. 47, comma 3) si preoccupa di garantire perfino «l’autonomia economica» delle sedi decentrate della Rai.
In conclusione e in sintesi, il servizio assicurato dalla Rai rappresenta un «foro pubblico» (C. Sunstein, Republic.com, Bologna 2003, pagg. 42 ss.), un’istituzione non partigiana (counter-majoritarian Institution), per molti versi assimilabile alla scuola pubblica (A. Barbera, Intervento, in «Le istituzioni del federalismo», 2006, suppl. I, pag. 231). Per garantire la propria specifica missione, il servizio pubblico radiotelevisivo dev’essere indipendente dal governo, come sosteneva già negli anni Venti del secolo scorso John Reith, il primo direttore della BBC. E l’indipendenza si misura in primo luogo attraverso l’autonomia e la certezza dei finanziamenti. Vale per la Rai, vale per ogni istituzione pubblica che si presuma imparziale, come la magistratura. Non a caso la Costituzione americana (articolo III, sezione 1) vieta di diminuire il trattamento economico dei giudici, finché restano in carica.
5. b) L’intangibilità del canone. – La protezione costituzionale del canone radiotelevisivo discende, come un frutto dall’albero, dalla somma di principi appena illustrati. Se l’indipendenza economica della Rai rappresenta il valore custodito negli artt. 9 e 21 della Costituzione, il canone rappresenta lo strumento per realizzare quel valore. Sicché quest’ultimo non può venire confiscato dal governo, senza violare le stesse norme costituzionali che forgiano lo statuto pubblicistico della società concessionaria. E tale conclusione risulta ulteriormente comprovata dalla configurazione giuridica del canone, per come si è venuta precisando attraverso una storia legislativa e giurisprudenziale il cui battesimo risale agli anni Trenta del XX secolo (r.d.l. 21 febbraio 1938, n. 246, convertito dalla legge n. 880 del 1938).
In origine, quest’ultimo venne configurato dalla dottrina giuspubblicistica come prezzo, ossia come un corrispettivo di natura contrattuale rispetto al servizio erogato dall’emittente pubblica (A. De Valles, Natura contrattuale del rapporto tra la Rai e i suoi abbonati, in «Foro italiano», 1957, IV, cc. 33 ss.; M.S. Giannini, Ancora in tema di prezzo e tassa, in «Giurisprudenza costituzionale», 1963, pag. 690; G. Ferri, Detenzione di apparecchio radiotelevisivo e obbligo di pagamento del canone, in «Rivista di diritto commerciale», 1967, II, pagg. 302 ss.). Sulla stessa falsariga si orientò, in quel torno d’anni, la giurisprudenza di merito e di legittimità (Corte d’appello di Genova, 16 maggio 1953, in «Foro padano», 1953, I, pag. 920; Cassazione, sezioni unite, sentenza n. 3231 del 17 ottobre 1953, in «Rassegna di diritto cinematografico», 1955, pag. 185). Successivamente la Corte costituzionale riconobbe viceversa la natura pubblicistica – anziché privatistica – del rapporto fra la Rai e i propri abbonati, qualificando perciò il canone come tributo, senza tuttavia chiarire se si trattasse di un’imposta ovvero di una tassa (sentenza n. 81 del 1963, poi ribadita dalle decisioni nn. 162 e 187 del 1971, nonché 10 del 1974). Anche la Corte di Cassazione, a quel punto, modificò il proprio orientamento (Cassaz. civ., sentenze nn. 164 del 1975 e 864 del 1983; v. inoltre S. Fois, Brevi note sulla natura giuridica del canone radiotelevisivo, in «Diritto dell’informazione», 1985, pagg. 208 ss.)
Il passaggio ulteriore si consuma durante gli anni Ottanta, quando una pronunzia della Corte costituzionale qualifica il canone radiotelevisivo come imposta, dovuta anche in assenza di uno specifico «atto vantaggioso per il singolo dell’autorità» (nel caso di specie, il giudizio era stato promosso da cittadini residenti in aree non irradiate dalle reti Rai), bensì in virtù della prestazione di servizi generali quali «la polizia e l’amministrazione dell’etere» (sentenza n. 535 del 1988, su cui A. Fantozzi, Brevi note sulla qualificazione tributaria del canone radiotelevisivo, in «Giurisprudenza costituzionale», 1988, pagg. 2535 ss.; e in senso analogo ordinanze nn. 219 e 499 del 1989). Ma il punto d’approdo di questo tormentato iter, nonché il punto decisivo per quanto qui interessa, risiede nella sentenza costituzionale 26 giugno 2002, n. 284.
È il caso di citarne per esteso il brano essenziale (punto 3 della motivazione in diritto): «Proprio l’interesse generale che sorregge l’erogazione del servizio pubblico può richiedere una forma di finanziamento fondata sul ricorso allo strumento fiscale. Il canone radiotelevisivo costituisce in sostanza un’imposta di scopo, destinato come esso è, quasi per intero (a parte la modesta quota ancora assegnata all’Accademia nazionale di Santa Cecilia), alla concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo». Da qui il rigetto della censura sottoposta all’esame della Consulta da parte del Tribunale di Milano, censura che denunziava l’incostituzionalità della scelta di destinare i proventi del canone unicamente alla Rai; la Corte costituzionale respinse quel rilievo, e ciò profila un argomento decisivo ai fini del presente parere pro veritate. Da qui, per l’appunto, la qualificazione del canone (successivamente ribadita dalla sentenza n. 255 del 2010) come «imposta di scopo».
Ma che cosa deve intendersi con tale locuzione? In sintesi, si tratta di un prelievo fiscale la cui destinazione viene predeterminata per legge, ed è rivolta a soddisfare particolari obiettivi d’interesse pubblico (G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, Padova 1999, pag. 22). Nel caso del canone radiotelevisivo, l’obiettivo consiste nella certezza del finanziamento in favore dell’emittente pubblica, finanziamento che a sua volta garantisce la certezza del servizio prestato da quest’ultima (R. Borrello, Il canone radiotelevisivo di nuovo dinanzi alla Corte: l’ennesimo capitolo della storia di un tributo controverso, in «Giurisprudenza costituzionale», 2002, pag. 2069). E infatti il gettito del canone viene iscritto in una contabilità separata nel bilancio della Rai, come generalmente avviene per le imposte di scopo, in modo da identificare i costi imputabili al servizio d’interesse generale (P. Manzini, Note sulle relazioni pericolose tra Stato e imprese nel quadro del diritto comunitario, in «Diritto dell’Unione europea», 2002). Succede, per esempio, rispetto all’imposta di scopo comunale (ISCOP), introdotta dalla legge n. 296 del 2006 per finanziare opere pubbliche da parte dei Comuni; ma è quantomai emblematico il fatto che quest’ultima legge (art. 1, comma 151) obblighi i Comuni a rimborsare i cittadini, se i lavori per la realizzazione dell’opera non siano cominciati entro due anni dalla data prevista dal progetto esecutivo. Ad applicare lo stesso meccanismo alla manovra finanziaria orchestrata dal decreto legge n. 66 del 2014, lo Stato dovrebbe restituire ai cittadini il 10% del canone pagato per l’anno in corso, dal momento che il prelievo di 150 milioni vale quasi il 10% del totale.
Da qui una conclusione a rime obbligate: il gettito del canone radiotelevisivo è indisponibile per il governo, come d’altronde è indisponibile per la stessa Rai. Ne è prova il testo unico che disciplina organicamente la materia (d. lgs. 31 luglio 2005, n. 177): a norma dell’art. 7, comma 5, «Il contributo pubblico percepito dalla società concessionaria del servizio pubblico generale radiotelevisivo, risultante dal canone di abbonamento alla radiotelevisione, è utilizzabile esclusivamente ai fini dell’adempimento dei compiti di servizio pubblico generale affidati alla stessa», tant’è che «sono escluse altre forme di finanziamento pubblico in suo favore»; a norma dell’art. 47, comma 3, «Entro il mese di novembre di ciascun anno, il Ministro delle comunicazioni, con proprio decreto, stabilisce l’ammontare del canone di abbonamento in vigore dal 1º gennaio dell’anno successivo, in misura tale a consentire alla società concessionaria della fornitura del servizio di coprire i costi che prevedibilmente verranno sostenuti in tale anno per adempiere gli specifici obblighi di servizio pubblico generale radiotelevisivo affidati a tale società»; a norma dell’art. 47, comma 4, «È fatto divieto alla società concessionaria della fornitura del servizio pubblico di cui al comma 3 di utilizzare, direttamente o indirettamente, i ricavi derivanti dal canone per finanziare attività non inerenti al servizio pubblico generale radiotelevisivo».
Insomma, la Rai non può disporre liberamente del canone radiotelevisivo, né tantomeno può disporne il potere esecutivo. Come peraltro recita l’art. 27, comma 8, della legge n. 488 del 1999: «Il canone di abbonamento alle radioaudizioni circolari e alla televisione è attribuito per intero alla concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo, ad eccezione della quota già spettante all’Accademia di Santa Cecilia». Dovremmo considerarla l’ennesima disposizione implicitamente abrogata dal decreto legge n. 66? E sarebbe mai legittima tale abrogazione? In realtà un conto è porre un tetto (240 mila euro l’anno) alle retribuzioni della dirigenza pubblica, e quindi pure dei dirigenti della Rai, come stabilisce il decreto in questione, cui difatti il cda Rai si è adeguato prontamente (nella seduta del 15 maggio 2014); un conto è prosciugare le risorse dell’emittente pubblica, oltretutto in corso di esercizio finanziario. Non a caso, l’ammontare del canone viene determinato anno per anno all’esito di una procedura concertativa (o comunque di reciproco confronto) fra il Ministero e la Rai, vagliando il fabbisogno stimato per l’anno successivo, e sempre in misura tale da garantire l’autosufficienza economica dell’emittente pubblica; dopo di che il suo gettito affluisce al bilancio dello Stato (capitolo di entrata n. 1216), che lo riversa pressoché interamente a Rai s.p.a. (capitolo di uscita n. 3836). Senza considerare, in via di fatto, che l’importo del canone in Italia risulta largamente inferiore alla media europea (nel 2011 era all’incirca 110 euro, rispetto ai 170 euro del Regno Unito e agli oltre 200 euro della Germania).
Distogliere le somme impegnate per il funzionamento dell’emittente pubblica, significa distogliere il servizio pubblico dai propri obblighi costituzionali. Non può farlo il governo, non può farlo nessun’altra istituzione della Repubblica italiana. Depone in questo senso un’esplicita pronunzia della Corte costituzionale, investita circa la costituzionalità di una legge regionale del Piemonte (n. 25 del 2009) che pretendeva di utilizzare una quota del canone di abbonamento radiotelevisivo corrisposto dai cittadini piemontesi. Con sentenza n. 255 del 2010, la Consulta ha annullato la legge del Piemonte, osservando che «il gettito di detto tributo erariale è destinato alla copertura dei costi del servizio pubblico generale radiotelevisivo, con ciò escludendo qualsiasi possibilità di “intese” con la Regione sulla destinazione del gettito del medesimo tributo» (punto 3 della motivazione in diritto).
Last but not least, l’intangibilità del canone viene suffragata dal diritto europeo. Il 10 settembre 1996 il Consiglio d’Europa (Raccomandazione n. 96) ha affermato che il canone d’abbonamento va utilizzato per le attività a lungo termine delle emittenti pubbliche. A sua volta, nel 2009 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha posto l’accento sulla «funzione tipica» del canone, «legata alla contribuzione per il servizio pubblico» (decisione Faccio/Italia, 31 marzo 2009). Da qui la conclusione: il gettito del canone radiotelevisivo descrive un «riservato dominio» dell’emittente pubblica (M. Mensi, La disciplina del servizio pubblico radiotelevisivo alla luce della Comunicazione della Commissione europea del 2009 in tema di aiuti di Stato, in «Diritto ed economia dei mezzi di comunicazione», 2011, n. 2, pag. 59).
6. c) La violazione del principio di lealtà fiscale. – L’attentato all’indipendenza della Rai – protetta dagli artt. 9 e 21 della Carta del 1947 – non è l’unico vulnus alla legalità costituzionale. Il secondo vizio d’incostituzionalità del decreto legge n. 66 del 2014 consiste nella violazione del principio di lealtà fiscale, quale si desume dagli artt. 23 e 53 della Costituzione: due norme «idealmente congiunte», come venne rilevato già durante i dibattiti dell’Assemblea costituente (V. Falzone, F. Palermo e F. Cosentino, La Costituzione della Repubblica italiana illustrata con i lavori preparatori, Milano 1979, pag. 168 s.). La prima norma estende alla materia tributaria il principio di legalità, secondo cui nessun potere autoritativo può sussistere se non si fonda sulla legge; la seconda regola ed orienta la legislazione tributaria. Giacché in uno Stato di diritto l’imposizione fiscale non è soltanto fonte di obblighi a carico del cittadino; specularmente, l’obbligo ricade pure sullo Stato. Significa che il contribuente è armato di diritti, oltre che gravato di doveri nei confronti del fisco; e significa perciò che i diritti del contribuente si traducono in altrettanti doveri da parte del fisco.
Quali? Lo statuto dei diritti del contribuente (legge 27 luglio 2000, n. 212) ne opera una ricognizione. Le disposizioni tributarie devono esibire il doppio attributo della chiarezza e della trasparenza (art. 2); non possono spiegare effetti retroattivi (art. 3); l’amministrazione finanziaria ha l’obbligo di offrire un’informazione agevole e completa sui tributi (artt. 5 e 6); ai contribuenti viene assicurato il diritto d’interpello (art. 11); ulteriori garanzie assistono le verifiche fiscali (art. 12). Infine – per quanto più specificamente interessa in questa sede – da un lato viene preclusa l’adozione dei decreti legge in materia tributaria (art. 4), dall’altro lato viene scolpito il principio dell’affidamento: «I rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede» (art. 10, comma 1).
Quest’ultimo principio ha valenza generale, nel senso che esso permea ogni ambito dell’ordinamento giuridico. Nel campo dei rapporti fra privati, si esprime attraverso il principio di buona fede, che a sua volta risale al diritto romano (Fides supremum rerum humanarum vinculum est). Nel campo dei rapporti fra l’individuo e la pubblica autorità, riposa sulla tutela delle aspettative dei singoli circa la correttezza dell’azione amministrativa (F. Merusi, L’affidamento del cittadino, Milano 1970). Da qui il suo riconoscimento nel diritto europeo, a partire da una sentenza della Corte di giustizia (3 maggio 1978, decisione C-12/77), che lo ha poi qualificato «principio fondamentale della comunità» (5 maggio 1981, decisione C-112/80). Da qui il suo esordio nella giurisprudenza costituzionale, attraverso la sentenza n. 349 del 1985, secondo cui «l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica costituisce elemento fondamentale ed indispensabile dello Stato di diritto» (punto 5 della motivazione in diritto). Tanto che, in nome del principio d’affidamento, in una celeberrima sentenza (n. 364 del 1988) la Consulta ha stemperato perfino il vincolo d’osservanza delle leggi (Ignorantia iuris non excusat).
Successivamente lo stesso tribunale costituzionale ne ha operato ripetute applicazioni alla materia tributaria, riferendosi all’«affidamento del contribuente» (così, fra molte altre, le decisioni nn. 263 e 542 del 1987, 229 del 1999, 16 del 2002, 360 del 2003). E con accenti analoghi si è espressa pure la Cassazione, affermando che «il principio di tutela del legittimo affidamento del cittadino, reso esplicito in materia tributaria dall’art. 10, comma 1, L. n. 212 del 2000, e trovando origine negli artt. 3, 23, 53 e 97 Cost., è immanente in tutti i rapporti di diritto pubblico e costituisce uno dei fondamenti dello Stato di diritto nelle sue diverse articolazioni, limitandone l’attività legislativa e amministrativa» (Cassazione, Sez. trib., sentenza 6 ottobre 2006, n. 21513. Nello stesso senso v. inoltre Cassazione, Sez. V trib., sentenze nn. 5931 del 2001, 17576 del 2002, 7080 del 2004, 10982 del 2009, nonché Sez. I, ordinanza n. 26505 del 2006).
Per quale ragione il decreto legge n. 66 calpesta l’affidamento dei cittadini? Perché questi ultimi, pagando il canone d’abbonamento radiotelevisivo per il 2014, sapevano che la sua destinazione sarebbe stata vincolata al fabbisogno della Rai, in base alla legislazione vigente e ai principi costituzionali che ne regolano la disciplina. Viceversa se lo Stato (oltretutto a mezzo d’un decreto legge, la cui ammissibilità in materia tributaria è quantomeno dubbia) stralcia una quota del canone per finanziare le spese più svariate, con ciò dimostra d’avere ingannato i cittadini, di averne carpito la fiducia. E qui davvero non ha alcuna importanza la finalità cui corrisponde il prelievo: può trattarsi di costruire asili o d’acquistare aerei da combattimento, può trattarsi di ridurre l’IRAP o il cuneo fiscale per i lavoratori dipendenti (come si prefigge il decreto legge n. 66), ciò che conta è la veridicità dell’imposizione tributaria. Le esigenze generali vanno soddisfatte attraverso la fiscalità generale, non distorcendo la funzione di un’imposta tesa a garantire l’indipendenza economica della Rai. Anzi: il decreto legge n. 66 determina una doppia imposizione a carico dei contribuenti, che vengono così chiamati a sostenere le esigenze generali sia attraverso la tassazione sul proprio reddito, sia attraverso il canone radiotelevisivo. E poiché quest’ultimo risponde a un importo fisso, indifferente alle ricchezze individuali, il prelievo operato dal decreto legge n. 66 viola inoltre il principio di progressività del sistema tributario, garantito dall’art. 53, comma 2, della Costituzione.
Più in generale, sussiste – e non a caso – un’assonanza fra «leale» e «legale». La legge cui dobbiamo obbedire è una legge accettata come giusta, credibile, e perciò creduta. Altrimenti – dice Pericle ad Arcibiade, in un dialogo che ci ha trasmesso Senofonte – quest’ultima verrà vissuta come una sopraffazione, anziché come un coltello che spunta le unghie del potere. Sicché la legalità subisce una ferita quando la legge stessa è falsa, ingannatrice. La ratio del principio di legalità sta tutta in questi termini. Se a soddisfarla bastasse l’approvazione di una legge – o di un atto che ne possiede la medesima efficacia, come il decreto legge – la vicenda normativa aperta dal decreto n. 66 potrebbe chiudersi senza obiezioni d’ordine giuridico. Ma il principio di legalità in materia tributaria non si lascia comprimere in questa concezione minimale. Ogni tributo va istituito per legge (art. 23 Cost.), tuttavia per legge bisogna intendere una regola che stabilisca modalità e scopi del tributo. È il principio di legalità sostanziale, che secondo la migliore dottrina informa l’intera impalcatura della Costituzione (L. Carlassare, Regolamenti dell’esecutivo e principio di legalità, Padova 1966; S. Fois, Legalità (principio di), in «Enciclopedia del diritto», Milano 1973, pagg. 677 ss.; G.U. Rescigno, Sul principio di legalità, in «Diritto pubblico», 1995, pagg. 256 ss.; F. Sorrentino, Le fonti del diritto italiano, Padova 2009, pag. 57).
Nel caso di specie, il governo ha modificato retroattivamente il sistema tributario; la legalità formale in apparenza resta indenne, però sfuma la razionalità dell’imposta, lo scopo stesso di questa imposta di scopo. E ciò introduce un ultimo e decisivo vizio di legittimità costituzionale.
7. L’irragionevolezza complessiva dell’art. 21 del decreto legge n. 66. – In conclusione e in sintesi, l’art. 21 del decreto legge 24 aprile 2014, n. 66, esprime una norma irragionevole, e perciò in contrasto con l’art. 3 della Costituzione (v. per tutti L. D’Andrea, Ragionevolezza e legittimazione del sistema, Milano 2005). È irragionevole (o meglio irrazionale: sulla distinzione fra irragionevolezza e irrazionalità della legge G. Zagrebelsky e V. Marcenò, Giustizia costituzionale, Bologna 2012, pagg. 196 ss. e 202 ss.) il trattamento normativo del canone d’abbonamento quale risulta dal decreto n. 66, perché quest’ultimo intervento v’introduce elementi di contraddittorietà, rendendo incongruente il rapporto fra mezzi e fini dell’imposta. È irragionevole la ventilata cessione di Rai Way, perché ostacola gli adempimenti cui Rai s.p.a. è tenuta per legge (come si è argomentato retro, paragrafo 3). È irragionevole un quadro normativo che da un lato assicura l’autonomia economica delle sedi decentrate della Rai (art. 47, comma 3, del Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici), dall’altro lato ne prospetta la chiusura attraverso l’art. 21, comma 2, del decreto legge n. 66 (v. ancora retro, paragrafo 2). Ed è infine irragionevole un prelievo fiscale che colpisce l’emittente pubblica, lasciando indenni le emittenti private. Da qui una disparità di trattamento fra settore pubblico e privato che offende il principio d’eguaglianza protetto dall’art. 3 della Costituzione, come d’altronde la Corte costituzionale ha stabilito in decisioni innumerevoli.
Fra le più recenti, nonché fra le più note pure ai non “addetti ai lavori” per l’attenzione che le è stata tributata dai mass media, la sentenza 11 ottobre 2012, n. 23: in quella circostanza è stato annullato il c.d. contributo di solidarietà imposto dalla legge n. 133 del 2010 a carico dei soli dipendenti e pensionati pubblici che superassero determinati tetti stipendiali. Da qui l’irragionevolezza della tassazione, per violazione del «principio della parità di prelievo a parità di presupposto d’imposta economicamente rilevante» (punto 13.3.1. della motivazione in diritto); e «l’irragionevolezza non risiede nell’entità del prelievo denunciato, ma nella ingiustificata limitazione della platea dei soggetti passivi». Nel caso di specie, quindi, la Consulta reputò l’imposta discriminatoria perché prevista unicamente verso i dipendenti pubblici, ma altresì perché non operava «alcuna distinzione tra le diverse categorie di dipendenti pubblici e, in particolare, tra i dipendenti pubblici statali e non statali»; come peraltro avviene pure in relazione all’art. 21 del decreto legge n. 66, dal momento che quest’ultima disposizione impone soltanto alla Rai – fra tutte le società sotto il controllo pubblico – il contributo di 150 milioni di euro.
Dalla somma di questi rilievi deriva l’incostituzionalità dell’art. 21 del decreto n. 66 del 2014, per violazione degli artt. 3, 9, 21, 23 e 53 della Costituzione. Ed è appena il caso d’osservare che i profili d’illegittimità costituzionale illustrati nel presente parere pro veritate rimarrebbero inalterati anche ove il Parlamento convertisse il decreto in questione apportandovi modifiche puramente formali, oppure semplici aggiustamenti nell’importo del prelievo a carico di Rai s.p.a.
Michele Ainis
Ordinario di Istituzioni di diritto pubblico nell’Università di Roma Tre
Dato in Roma, 28 maggio 2014
Parere di Ainis su DL66.2014 per lo Snater
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